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Lunedì 19 dicembre

Giuseppe, figlio di davide, non temere di prendere
con te Maria, tua sposa...
(Mt
1,18-24)
La
tradizione cristiana che insegna a chiamare attesa il tempo,
propone l’Avvento come la professione dell’unica speranza disponibile, per
tutti, anche per i giovani superflui. La speranza non è, piuttosto che
invocazione, solo un gemito collettivo che è sintomo del disagio d’essere
nella storia. La speranza è frutto di un incontro
singolare: non è il gruppo o la compagnia che risponde. La voce
che chiama alla speranza pronuncia un nome per volta e attende il momento
per ciascuno. “Ecco, sto alla porta e busso. Se
qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò
con lui ed egli con me” (Ap 3, 20). Nasce da questo incontro la
speranza: non dipende dall’immaginazione di ciò che è possibile, ma
dall’accoglienza di ciò che è vero; non aspetta condizioni favorevoli,
ma si compie nell’obbedienza al compito assegnato. Chi trova la speranza
non si perde nel deprecare come siano degenerati i tempi e insopportabili
gli uomini: fa quello che può, e vorrebbe fare di più. Non lo sfiora più
il sospetto d’essere superfluo, da quando è stato chiamato. E’ la storia
di quel servo che, avendo ricevuto l’incarico, si dedica vigile al suo
lavoro: sa che deve rendere conto e attende il ritorno del padrone. La
speranza assume il tempo non come un presente da consumare, ma come
l’irripetibile occasione per l’improrogabile obbedienza. In altre parole
il tempo dell’Avvento parla della vocazione. I giovani superflui
continueranno a bivaccare fastidiosi e indisturbati, non aspettando
niente, finché non presteranno ascolto alla voce che chiama ciascuno per
nome.
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